lunedì 25 settembre 2023

Le migrazioni in Europa: l’unicità del caso tedesco (II° Parte)


 

 

di Rodolfo Ricci (FIEI)

La Germania è da oltre un secolo uno dei più grandi “paesi di immigrazione”; per lungo tempo i vari governi rifiutarono questo appellativo, impegnati come erano a considerare e a rendere congiunturali i flussi immigratori che incentivavano in corrispondenza dei cicli di crescita mentre li disincentivavano nei periodi di crisi favorendo i rientri: l’invenzione del Gastarbeiter (lavoratore ospite provvisorio) fu la sintesi letterale di questa impostazione di lunga durata.

Soltanto da circa venti anni questa politica è cambiata con l’introduzione di una legislazione progressivamente più aperta e anche in considerazione del fatto che una volta acquisite competenze e saperi alla cui formazione non si è investito direttamente e di cui si dispone liberamente, è meglio tenersele in casa: ciò costituisce un guadagno oggettivo e in un’economia sempre più fondata sulle competenze e sempre meno su braccia come appendici di macchine, questo fattore è determinante.

La nuova legislazione in corso di definizione sta puntualizzando queste acquisizioni e attraverso di essa la Germania si predispone a programmare e gestire le politiche migratorie dei prossimi decenni con l’obiettivo di stabilizzare la sua popolazione e il suo potenziale economico.

Una più approfondita conoscenza del caso tedesco ci consente di comprendere meglio le dinamiche interne all’Unione Europea. E potrebbe anche aiutare a modificare in meglio l’approccio italiano all’immigrazione, stabilmente caratterizzato da una controproducente emergenzialità.

La sottovalutazione della nuova emigrazione e l’accentuazione dell’immigrazione (solo come problema securitario) è purtroppo parte costitutiva della vicenda nazionale degli ultimi anni. Invece sarebbe auspicabile una valutazione parallela dei due fenomeni per quello che essi denotano dal punto di vista della loro genesi e per quello che possono comportare nei loro effetti, possibilmente evitando approcci ideologici.

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Prima parte:  QUI

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Nella Tabella 1) possiamo osservare i flussi registrati in Germania, da e per l’Italia, con relativi saldi nel periodo 1964-2021, 2000-2009 e 2010-2021. (Si veda anche la Tabella 6 in appendice che riassume comparativamente i dati dei movimenti migratori annuali dall’Italia alla Germania dal 1964 al 2014 secondo i dati Istat e secondo i dati dello Statistisches Bundesamt di Wiesbaden).

E’ qui rappresentata una parte significativa della lunga storia di emigrazione italiana verso la Germania, una sorta di dato strutturale delle relazioni economiche tra i due paesi nell’arco di quasi 60 anni, delle loro caratteristiche e delle qualità dei due modelli di capitalismo: in questo spazio di tempo, sono approdati sul suolo tedesco per viverci e lavorare per periodi più o meno lunghi, oltre 4 milioni di persone provenienti dall’Italia.

Una quantità notevole con saldi migratori di una certa consistenza. Significativo che il saldo migratorio “guadagnato” dalla Germania a spese dell’Italia soltanto negli ultimi 12 anni sia di circa 250mila persone equivalente ad una città delle dimensioni di Verona o Venezia, (una città, beninteso, fatta in massima parte di giovani, di cui circa 1/3 laureati, ecc.), mentre, nel decennio precedente il saldo migratorio era a vantaggio dell’Italia a causa dei rientri delle precedenti ondate.

I dati mostrano la sequenza delle ultime grandi fasi emigratorie del dopoguerra (che si chiudono tra gli anni ‘70 e ‘80) e, per l’ultimo periodo considerato, la sua ripresa a seguito degli effetti della crisi dei mutui sub-prime del 2007-2008 che ha innescato, in particolare dal 2010, la nuova massiccia emigrazione italiana nei primi anni del secondo decennio.1

 

Qui, vale però la pena comprendere meglio, al di là degli effetti della crisi e la ripresa dei flussi italiani, l’approccio politico-economico complessivo di un paese, la Germania, che dagli inizi del secolo e in particolare nel secondo decennio, ha prodotto una performance di acquisizione di risorse umane impressionante, con un saldo positivo di oltre 6 milioni di persone dal 2000 al 2021, di cui oltre 5 milioni e mezzo solo negli ultimi 12 anni; la Tabella 2) illustra i movimenti di tedeschi e stranieri nei due primi decenni del secolo, con i relativi saldi migratori:

 

 

Come si vede, nel corso del primo ventennio del secolo sono arrivati in Germania oltre 21 milioni di persone, conferendo al paese oltre 6,5 milioni di saldo immigratorio positivo; ma solo tra il 2010 e 2021 ne sono arrivati quasi 15 milioni per un saldo di oltre 5,6 milioni (cioè oltre l’86% dell’intero periodo 2010-2021). Pur in presenza di un saldo emigratorio negativo di cittadini tedeschi di una certa consistenza, il guadagno demografico è di oltre 6 milioni nel ventennio di cui oltre 5 milioni tra il 2010 e il 2021.

Nella seguente Tabella 3) possiamo invece vedere l’entità dei flussi con i relativi saldi migratori tra Germania e paesi UE-27 per i periodi indicati. Gli effetti della “libera circolazione” delle forze di lavoro in un contesto di squilibrio economico-finanziario e di forti differenziali di produttività tra paesi, sono evidenti; il fatto che quasi la metà dei saldi positivi complessivi sia stato acquisito grazie a flussi di immigrazione intra-europea (dall’ est e dal sud) e non dagli arrivi da Medio Oriente, Asia o Africa, come si è soliti pensare, è un altro dato significativo, quanto frequentemente tenuto ai margini delle riflessioni e delle indagini, probabilmente perché registra un’immagine di U.E. non del tutto auspicabile. Allo stesso tempo, la comparazione tra le tabelle 2) e 3) ci permette di vedere che l’immigrazione da paesi europei verso la Germania è pari ad oltre il 61% del totale nel periodo considerato. Ed è infine imponente il numero di coloro che sono arrivati in Germania dall’Europa nei 57 anni che vanno dal 1964 al 2021: quasi 27 milioni.

 

 

La Tabella 4) illustra invece flussi e saldi migratori tra Germania e quesi paesi E.U. che hanno devoluto almeno 100mila unità nell’ultimo decennio (in appendice, alla Tabella 5, l’elenco completo) e rende chiaro lo svolgimento delle dinamiche economiche e demografico-migratorie nell’Unione nei periodi presi in considerazione. Come si vede, nel periodo 2010-2021 l’Italia fornisce alla Germania il quarto contributo immigratorio netto dopo Romania, Polonia e Bulgaria; i maggiori flussi di arrivi per tutto il periodo 1964-2021 provengono da Polonia (paese confinante) e Italia; a seguire dalla Romania. Per tutti i paesi presi in considerazione è l’ultimo decennio quello caratterizzato da maggiori flussi e maggiori saldi immigratori positivi per la Germania, a testimonianza dell’impatto durissimo della crisi del 2008-’11 sui paesi periferici e alla loro strutturale compenetrazione (e dipendenza) dall’economia tedesca attorno a cui sembra orbitare tutta l’area est e sud europea.

Allargando lo sguardo al resto del mondo bisogna ricordare che in questo ventennio questo paese è stato il maggior accettore di emigrazione proveniente dalle aree di grandi crisi geopolitiche e di guerra: dal 2000 al 2021 la Siria ha fornito alla Germania un saldo positivo di 740.894 persone, l’Irak 252.483, l’Afghanistan 269.186; lo spazio ex-Jugoslavo 538.418, mentre lo spazio ex-sovietico nel suo complesso, inclusa la parte asiatica, ne ha fornito 1.057.920, proseguendo il trend degli imponenti arrivi di milioni di Aussiedler e Uebersiedler di origine tedesca che erano giunti dopo il 1989 da Russia, Ucraina e dalle repubbliche centro-asiatiche dell’ex Unione sovietica. 2 3

Si vedrà se questa configurazione è destinata a perpetuarsi in presenza della novità (molto negative) dello scontro Nato-Russia e alla forzata rinuncia agli approvvigionamenti energetici di gas a basso costo che erano assicurati dal Nord Stream e che sta portando alla crisi e alla chiusura di migliaia di imprese, oppure se la nuova situazione consentirà alla Germania di continuare, come programmato, nell’incentivazione di flussi di immigrazione selezionata4 alternativamente anche da territori extra-europei – in ogni caso agli stessi ritmi del decennio trascorso se si vuole mantenere più o meno stabile la popolazione residente ed integra la capacità produttiva potenziale del paese. Ma ormai le scelte non sono più solo in mani tedesche; gli effetti dell’attuale crisi si trasferiranno direttamente anche alle economie dipendenti o legate alla Germania; potrebbero anche comportare la permanenza di flussi nella stessa direzione, se permarranno, come presumibile, differenziali relativi di un certo peso; altrimenti i movimenti di persone dai paesi periferici del sud e dell’est Europa potrebbero prendere, almeno in parte, altre direzioni, in corrispondenza di quelle aree che registreranno una migliore performance rispetto alla riconfigurazione (da vedere se a blocchi conflittuali come intenderebbe la Nato o su nuovi equilibri multipolari come proposto dai Brics) delle catene del valore in cui sembra doversi ricomporre lo scenario globale.

Sarà interessante verificarlo nei dati dei prossimi anni che riguarderanno i paesi emergenti del sud America e del Medio e Estremo Oriente, oltre a quelli del nord America e dell’Australia: nello scenario di nuovi blocchi contrapposti sembra evidente che si produrrebbe un declino complessivo non solo della Germania, ma dell’intero continente, con la probabile apertura di nuove rotte emigratorie extra-europee.

 

TABELLA 4)

L’esempio tedesco ci dice molte cose, direttamente e indirettamente: intanto conferma l’ordine dei rapporti tra centri e periferie e la sostanziale validità delle relazioni di dipendenza che si registrano anche tra paesi sviluppati e che emergono anche dai movimenti di grandi masse di persone.

Dal punto di vista della capacità di programmazione delle politiche migratorie ci dice anche che non vi sono limiti assoluti di capacità di accoglienza e integrazione; essi sono piuttosto relativi alla dimensione economica e alla necessità/capacità di pianificazione centrale e burocratica di accoglienza e integrazione a capo di ogni sistema-paese, una funzione e una scelta eminentemente politica. Per l’Italia c’è molta materia da approfondire.

La capacità della Germania di programmare fin dalla fine del secolo scorso la quantità di ingressi che abbiamo osservato (che implicano tutta una serie di importanti misure di integrazione ad ogni livello: linguistica, scolastica, sociale, formativa e lavorativa), l’intenzione di proseguire e di perfezionare questo modello anche per i decenni a venire – come preannuncia l’approntamento di nuove leggi – confermano, se ce ne fosse bisogno, che le immigrazioni costituiscono un fattore strategico centrale per ogni paese che miri a mantenere o a conquistare una sovranità sul proprio futuro e a non cadere nella spirale della riduzione di popolazione con ciò che ne consegue.

Le attuali dinamiche demografiche e l’ingresso in un imbuto di crisi sovrapposte a diversi livelli suggeriscono l’opportunità che questa ricerca di futuro con cui ogni paese è costretto a confrontarsi sia misurata e negoziata con chi ci sta intorno, cioè cooperativa. E che non dovrebbe essere devoluta a soggetti esterni. Vi sono scelte e responsabilità da esercitare, cambiamenti strutturali da operare a partire dall’orientamento della spesa pubblica e dell’acquisizione delle risorse necessarie (per contenere l’emigrazione e incentivare l’immigrazione), quindi del sistema fiscale e di tassazione: se l’investimento sulle persone è strategico c’è bisogno di una rivoluzione nel modo di pensare il reperimento e l’allocazione delle risorse. E anche di un altro modello di impresa privata che condivida prospettive che riguardano l’intera società non la massimizzazione del profitto a breve termine. L’orientamento dogmatico all’export dei sistemi produttivi, ad esempio, andrebbe mitigato e conciliato con la necessità di crescita del mercato interno, cosa che costituisce tra l’altro un’opportunità anticiclica nelle fasi più turbolente.

Allo stesso tempo, rispetto al contesto comunitario, si imporrebbe una riconsiderazione delle politiche di coesione territoriale: una UE in balia dei liberi movimenti di capitale con annessa piena devoluzione al mercato della sua capacità di programmazione non sembra avere futuro.

 

Rodolfo Ricci (Fiei), Agosto 2023

NOTE:

 

1Gli Italiani in Germania: ancora un Reservarmee per il mercato del lavoro tedesco? (Edith Pichler) – URL: https://www.neodemos.info/2017/07/11/gli-italiani-in-germania-ancora-un-reservarmee-per-il-mercato-del-lavoro-tedesco/

2 – Sulle conseguenze demografiche nei paesi dell’est Europa e dei Balcani dei flussi emigratori post 1989 si rimanda all’importante Dossier “Uno sconvolgimento demografico in Europa” – Le Monde diplomatique/Il Manifesto del 18 giugno 2018, pp. 11-16 – (Philippe Descamps, Jean-Arnault Dérens e Laurent Geslin, Corentin Léotard e Ludovic Lepeltier-Kutasi, Rachel Knabel, Claude Aubert)

3 – I dati qui forniti sono nostre rielaborazioni delle serie storiche 2000-2021 dello Statistisches Bundesamt di Wiesbaden (Destatis) acquisiti nel maggio 2023 (Vedi Tabella 8 in Appendice).

4La Germania vuole diventare attrattiva. La nuova legge sulla immigrazione e il disegno di legge sulla cittadinanza (Edith Pichler) – URL: https://www.neodemos.info/2023/06/23/la-germania-vuole-diventare-attrattiva-la-nuova-legge-sulla-immigrazione-e-il-disegno-di-legge-sulla-cittadinanza/

 

FONTE: https://fiei.it/?p=802

venerdì 15 settembre 2023

La nuova emigrazione italiana dall’inizio degli anni ’10 alla fine della pandemia. (1° Parte)




La nuova emigrazione italiana dagli anni ’10 fino alla pandemia. (1° Parte)

Negli ultimi anni si sono infittiti interventi e ricerche sulla nuova emigrazione italiana che è ripartita con la grande crisi del 2008-2011. Tuttavia la disponibilità e la diffusione di tanti contributi non sembra aver influito sul grado di attenzione prestata dalla politica e dalle istituzioni a questo fenomeno1. Forse perché è conveniente parlare solo di immigrazione o forse perché i flussi di emigrazione sono molto sottostimati nella loro entità e, se valutati per la loro reale dimensione, comporterebbero un giudizio inappellabile per molti degli attori in scena. La nostra ipotesi è che in poco più di un decennio si sia messo in movimento verso l’estero circa il 5% dell’intera popolazione del paese.

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di Rodolfo Ricci (FIEI)

 

Abbiamo messo a confronto i dati dei flussi emigratori registrati negli ultimi 13 anni (2010-2022) dall’Italia verso Germania e Gran Bretagna, secondo l’Istat e secondo gli enti di statistica tedeschi e inglesi. Tra il 20122 e il 20163 avevamo già effettuato analoghe comparazione per il periodo 2011-2015 quando questi due paesi erano stati i maggiori accettori di flussi migratori dall’Italia4. La possibilità di comparare i dati su un periodo più lungo, consente di confermare il trend già evidenziato e di rilevare, “grazie”all’effetto della Brexit sulla registrazione delle presenze in Gran Bretagna, la validità dell’ipotesi, a suo tempo formulata, che gli emigrati attendono generalmente un periodo di una certa variabilità, computabile anche in diversi anni, prima di cancellare la propria residenza in Italia e che dunque i flussi reali (e anche lo stock emigratorio all’estero) sono notevolmente superiori a quelli desumibili dall’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all’estero).

Infatti la massiccia crescita di iscrizioni rilevata dall’AIRE per la Gran Bretagna negli anni 2020, 2021 e 2022, ha riguardato in gran parte persone che erano già presenti da anni sul territorio del Regno Unito ma non avevano mai cancellato la propria residenza in Italia. Mentre i dati raccolti dagli inglesi, come si evince dalla Tabella 1), danno invece conto di una riduzione effettiva degli arrivi a causa della pandemia.

 

 

La differenza annuale e complessiva tra dati Istat e dati locali è notevole: in 13 anni sono arrivate in Germania oltre 700mila persone dall’Italia (di cui circa l’85% italiani e circa il 15% di altre nazionalità). Mentre ne sono arrivati quasi mezzo milione in Gran Bretagna: i dati Istat rappresentano dunque soltanto una frazione molto ridotta dei reali movimenti avvenuti.

Il picco degli afflussi nei due paesi è stato raggiunto tra il 2014 e il 2019. Il 2015 è l’anno di maggior afflusso in Germania, con oltre 74mila arrivi, mentre per la Gran Bretagna è il 2016, con quasi 63mila arrivi.

Invece secondo i dati Istat il picco verso la Germania sarebbe stato raggiunto nel 2018 con oltre 20mila cancellazioni di residenza verso questo paese e il picco verso la Gran Bretagna sarebbe stato raggiunto nel 2020 (ma in realtà il motivo di questa discrepanza è legato come detto, all’evento Brexit). In entrambi i casi, tuttavia, dal 2013 al 2019 gli arrivi restano molto elevati e comparabili a quelli della seconda metà degli anni ‘60 del ‘900.

Gli anni 2020, 2021 e 2022 sono quelli in cui si manifesta l’impatto della pandemia da covid-19, con gli annessi lock-down e altre restrizioni ai movimenti internazionali, ma anche con la riduzione delle opportunità di lavoro in loco o di accesso alle misure sociali varate dai diversi governi, non acquisibili da coloro che operavano nel mondo del lavoro informale o a nero. In questi tre anni si è assistito dunque ad una consistente corrente di rientri, la cui entità è tuttavia di difficile valutazione avendo riguardato la parte totalmente nascosta della presenza all’estero, invisibile sia alle rilevazioni italiane che locali; alcune stime riconducono l’entità di questa presenza in Germania a circa il 20% del dato complessivo; che quindi dovrebbe essere aggiunto a quanto registrato dagli istituti tedeschi. Per la Gran Bretagna, la componente “nascosta” potrebbe essere stata percentualmente anche superiore.

Secondo l’Istat tra il 2018 e il 2022 vi è quasi un dimezzamento delle partenze verso la Germania. Mentre per le autorità tedesche, la riduzione negli arrivi è solo di circa un terzo e questo è un dato significativo perché indica che anche in un contesto complesso e incerto come quello pandemico, diverse decine di migliaia di persone hanno scelto comunque di intraprendere un loro progetto emigratorio, mente altre rientravano. Per la Gran Bretagna invece, emergerebbe, secondo i dati italiani, il paradosso che vi è addirittura un aumento delle partenze – anche consistente – proprio negli anni della pandemia; ma per gli istituti di rilevazione inglesi la flessione è più che chiara, come emerge dalla differenza negativa tra i dati italiani e quelli di oltremanica. Il dato più attendibile rispetto al movimento effettivo delle persone, in entrambi i casi è quello locale. Mentre quello italiano registra più un adempimento amministrativo piuttosto che l’effettiva partenza che, invece, può essere antecedente a quelli in cui si provvede a cancellare definitivamente la residenza in Italia.

La spiegazione della incongruenza tra le due colonne della tabella negli ultimi tre anni presi in considerazione (2020-2022) è la seguente: in Germania si è continuato a emigrare ritardando, come prassi consueta, la cancellazione della residenza in Italia, mentre in Gran Bretagna gli obblighi imposti dalla legislazione successiva alla Brexit per poter restare sul territorio del paese hanno convinto una notevole quantità di persone precedentemente arrivate (ma senza aver ancora cancellato la propria residenza in Italia), a farlo il più rapidamente possibile nei tre anni indicati. Il risultato è che in quest’ultimo periodo preso in considerazione le cancellazioni registrate dall’Aire risultano superiori agli arrivi registrati dalle autorità del Regno Unito. Ma si tratta di un’illusione ottica. In gran parte essi erano già presenti stabilmente sul territorio inglese da molti anni (mentre per le anagrafi dei comuni italiani non avevano mai lasciato il paese).

Un altro dato che conferma la diacronia nella registrazione dei flussi è la dimensione complessiva della presenza italiana in Gran Bretagna (stock emigratorio) che nel periodo 2017/2022 passa, secondo l’Aire, dai 283.855 ai 439.411. In nessun altro dei grandi paesi tradizionali mete migratorie italiane si registra un aumento così consistente in questo arco di tempo. Si tenga presente che al di là delle rilevazioni, in ripetute occasioni pubbliche, tra il 2017 e il 2019, la presenza complessiva degli italiani in Gran Bretagna venne effettivamente stimata da parte delle autorità locali (confermata dal Consolato di Londra) tra le 600 e le 700mila persone.5

Anche per questo si può affermare che la componente per anni invisibile e nascosta alle rilevazioni (sia italiane che locali) dovrebbe essere stata percentualmente superiore a quella stimata per la Germania.

Nella tabella seguente è evidenziata la variazione di presenza complessiva di italiani nei due paesi e, a seguire, in alcuni altri paesi di tradizionale approdo emigratorio.

 

 

Come si vede, l’aumento dello stock emigratorio complessivo negli anni indicati è stato, secondo l’AIRE, pari a 1.093.193 di persone. E bisogna tener presente che in questo dato sono comprese anche le decine di migliaia di riacquisizioni di cittadinanza (che riguardano essenzialmente i paesi dell’America Latina: Brasile, Argentina, Uruguay, ecc.).

Balza all’occhio che, considerando soltanto i movimento emigratori dall’Italia registrati come ingressi dagli istituti di statistica tedeschi e inglesi, raggiungiamo, per lo stesso periodo, la somma di 1.186.480, superiore quindi di 93.287 all’intero aumento registrato dall’AIRE per l’insieme dei maggiori paesi di emigrazione italiana nel mondo.

Se aggiungiamo la Svizzera, che nel decennio preso in considerazione è il terzo paese del continente per arrivi dall’Italia (in tutto il dopoguerra è stato il secondo), ci troviamo di fronte ad un ulteriore scarto tra dati italiani e dati locali.

Anche se i dati Svizzeri registrano l’arrivo delle persone “per nazionalità” (e non per paese di provenienza, come avviene in Germania e in Gran Bretagna) ed anche se il periodo che possiamo prendere in considerazione per la disponibilità dei dati al momento in cui scriviamo è di un anno in meno (2010-2021), si ripresenta una consistente differenza, un po’ più contenuta rispetto alle precedenti, ma che conferma che i flussi reali di emigrazione verso l’estero sono sempre superiori ai dati delle cancellazioni di residenza; in questo caso per un paese non U.E. in cui è relativamente più difficile stabilirsi rispetto ai paesi comunitari. La Tabella 3) che segue compara, come la precedente, i dati Istat con quelli locali svizzeri.

 

 

Da notare che la componente non italiana del flusso verso la Svizzera è abbastanza contenuta (circa il 6,71% del flusso totale, secondo i dati Istat) e quindi inferiore a quello di Germania e Gran Bretagna che corrispondono a circa1/6 dei flussi complessivi (per la Germania) e a circa 1/10 (per la Gran Bretagna).

Tuttavia, sommando i dati di ingresso registrati da Svizzera (2010-2021), Germania e Gran Bretagna (2010-2022) abbiamo il risultato di 1.378.791 arrivi rispetto ad una somma di cancellazioni di residenza italiane registrato dall’Aire (partenze verso i tre paesi) che è di 547.829.

Se ne può dedurre che i dati Istat per questi tre paesi hanno rappresentato solo il 40% dei flussi reali di espatrio. Anzi, molto probabilmente ancora meno, dal momento che i dati inglesi degli ultimi tre anni presi in considerazione (2019-2022) fanno lievitare per i motivi indicati (congiuntura Brexit) i numeri delle cancellazioni. Inoltre, come in ogni processo migratorio, vi è il numero di emigrazioni che sfugge sia ai dati italiani sia a quelli locali e riguarda le persone che non hanno necessità di registrare la loro presenza probabilmente perché occupate nel mercato del lavoro informale, lavoro nero e precario, di cui si è avuta qualche traccia nei rientri durante il periodo pandemico. Si stima che questa parte possa corrispondere mediamente ad un 15-20% del totale.

Tenendo conto anche di questa variabile il flusso emigratorio complessivo verso i tre paesi presi in considerazione si aggirerebbe tra 1,5 e 1,6 milioni di persone nei 13 anni che vanno dal 2010 al 2021.

Infine, volendo fare una proiezione dei flussi reali verso gli altri paesi (europei e extraeuropei) di cui non sono disponibili dati o serie storiche confrontabili analoghi a quelli presi in considerazione ma verso cui storicamente si è indirizzata l’emigrazione italiana raggiungeremmo facilmente i 2,5 milioni di emigrazioni di italiani e oltre 3 milioni complessivamente se vi includiamo anche i non italiani che hanno lasciato il paese.6

La possibilità che in 12 anni si sia messo in movimento verso l’estero circa il 5% dell’intera popolazione del paese dovrebbe suscitare qualche preoccupazione e alcune domande sugli effetti che questo numero di espatri ha su una serie di variabili e questioni in cui il paese si dibatte da anni: decremento demografico e spopolamento delle aree interne, basso tasso di attività della popolazione e tasso di occupazione (in particolare nelle fascia di età 15-54 anni), carenza di forza lavoro in diversi settori produttivi o di servizi sia pubblici che privati, tasso di crescita del PIL, indice di produttività e ricerca e sviluppo, sostenibilità del welfare e del sistema pensionistico, competitività generale del sistema paese, ecc..

La domanda centrale è: qual è il peso della nuova emigrazione rispetto al presente e al futuro dell’Italia ? E quali effetti duraturi comporterà, non solo nell’immediato, ma a medio e lungo termine ?

Tenendo presente la dimensione del fenomeno, che probabilmente è destinato a perpetuarsi (anche a fronte di un quadro globale in rapido mutamento) intorno a questo quesito dovrebbe svilupparsi una seria riflessione e una discussione che non ha senso rimandare ulteriormente: farla alla fine degli anni ‘20 sarebbe del tutto inutile.

 

 

(*) Rodolfo Ricci (F.I.E.I. – Federazione Italiana Emigrazione Immigrazione)

Agosto 2023

 

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NOTE:

1– Corrado Bonifazi, Frank Heins e Enrico Tucci – Dimensioni e caratteristiche della nuova emigrazione italiana – URL: https://journals.openedition.org/qds/4625

2 – R. Ricci – Intervento Conferenza su Immigrazione ed emigrazione, analogie e differenze: i modelli di insediamento (Brescia, 18 aprile 2012) – a cura di E. Castellano e C. Sorrentino – FDV-Ediesse 2013; URL in: https://www.FDV.it/immigr-ed-emigraz

3 – R. Ricci – Crisi europea e nuova emigrazione, in: Le nuove generazioni nei nuovi spazi e tempi delle migrazioni, di FILEF, a cura di Francesco Calvanese – Ediesse 2014; URL in: https://premioconti.org/crisi-europea-e-nuova-emigrazione

4 – M. Cevoli, R. Ricci – Le nuove migrazioni italiane – in: (E)migrazione e Sindacato, di FDV, a cura di Emanuele Galossi – Ediesse 2016; URL in: https://premioconti.org/nuove-emigrazioni-italiane

5 – Dichiarazioni nell’ambito dei ripetuti incontri tra tra Theresa May e Boris Johnson con il Ministro degli Esteri Alfano nel 2017 e 2018 – https://emigrazione-notizie.org/?p=28316 / https://emigrazione-notizie.org/?p=13700

6 – Utilizzando lo scostamento medio tra i dati italiani dell’Aire e quelli dei tre paesi (Germania, Gran Bretagna e Svizzera) nel periodo 2010-2021 (che è pari a + 2,56%) e utilizzando questo parametro come moltiplicatore da usare soltanto per gli altri paesi dell’area Europea occidentale, del nord America e dell’Oceania che hanno caratteristiche omogenee e capacità di attrazione analoghe (oltre ad alcuni paesi emergenti verso cui si indirizza una nuova emigrazione con caratteristiche omogenee, come quelli del Golfo, la Cina, Singapore, ecc.), si possono ottenere, a partire dai dati delle relative cancellazioni di residenza Istat i risultati indicati. Mentre per tutti gli altri paesi per i quali i movimenti emigratori verso l’estero sono riconducibili in gran parte al turn-over naturale dei rientri di immigrati precedentemente residenti in Italia (Europa dell’est, Africa, Asia, America Latina), si dovrebbe usare un moltiplicatore uguale a 1, cioè si userebbe integralmente il numero delle cancellazioni di residenza registrate in Italia. La somma tra la proiezione del primo gruppo e quelli del secondo – senza applicare alcuna proiezione -, danno il risultato indicato: 3,28 milioni di movimenti verso l’estero di cui circa 2,51 milioni quello degli italiani di passaporto nel periodo 2010-2021.

 

 

FONTE: https://fiei.it/?p=771

 

giovedì 24 febbraio 2022

Russia/Ucraina: La pace si raggiunge con più autonomia UE e bloccando l’allargamento della Nato.

 


 

Ciò che è avvenuto e sta avvenendo in Ukraina può essere letto come segue; ma una premessa necessaria riguarda i principi e i riferimenti al diritto internazionale, ai quali è sempre bene riferirsi e che nessuno dei contendenti ha mai rispettato da decenni a questa parte, tanto meno i “civili” europei.

Non lo si è rispettato a partire dalla precedente guerra in Europa, quella in Jugoslavia, paese che è stato bombardato senza alcun ritegno né rimorso dalla Nato, con la partecipazione decisiva del Governo D’Alema, forse varato all’uopo, con ministro della Difesa Sergio Mattarella; con la partecipazione attiva e decisiva del Vaticano di Papa Wojtyla, della Germania e di tutto il resto, inaugurando la tragica stagione dei nazionalismi etnici e religiosi secondo uno schema già sperimentato nel mondo post coloniale in Africa dalle multinazionali americane e europee e proseguito con la creazione e il sostegno all’islamismo wahhabita prima in Afghanistan in funzione anti-sovietica, successivamente nei territori palestinesi occupati da Israele, nel confitto Irak-Iran tra sunniti e sciiti e nella successiva aggressione all’Irak, in Algeria, in Egitto, nel Caucaso, in Libia, in Siria.

Non lo si è rispettato neanche più recentemente con il riconoscimento Usa dell’annessione del grande Sahara occidentale da parte del Marocco e con le assurdità del Kosovo o del Montenegro, di nuovo nei Balcani.

Il principio dell’autodeterminazione da una parte e dell’integrità territoriale degli stati, dall’altra, sono stati usati e vengono usati a piacimento e senza alcuno scrupolo logico o morale. Di volta in volta il quinto potere mass-mediatico è tenuto a cancellare la memoria storica delle masse e a innestarvi il principio di diritto più utile al momento.

Questa è il letamaio, dal punto di vista dei principi, che abbiamo di fronte e rispetto a questa situazione bisognerebbe tener presente che la narrazione con cui ognuno ha a che fare nei rispettivi paesi è intrisa di propaganda, ipocrisie e falsità storiche.

Venendo al presente: sono più di sette anni che la Russia chiede di applicare gli accordi di Minsk seguiti alle vicende di Piazza Maidan e allo spostamento dell’asse di riferimento internazionale dell’Ukraina. Lo ha continuato a chiedere fino alle più recenti settimane. Nel frattempo i morti sul confine delle due repubbliche russofone sono state circa 22 mila e i profughi verso est centinaia di migliaia. L’accordo prevedeva una autonomia delle due repubbliche entro i confini ucraini analoga a quella di cui gode, in Italia, la provincia dell’Alto Adige. L’esercito ucraino ha continuato a presidiare quel confine con bombardamenti che in questi ultimi mesi di crisi, anziché ridursi si sono intensificati.

Parallelamente la richiesta di adesione alla Nato da parte dell’Ukraina e l’arrivo di armamenti sofisticati da Gran Bretagna e Usa hanno messo sotto ulteriore pressione la Russia, già da anni allarmata dall’avanzamento della Nato fino ai suoi confini, contrariamente a quanto 30 anni prima promesso dai vertici Usa all’atto della riunificazione tedesca.

La vicenda è più che calda da quando la Russia ha rioccupato la Crimea (essenzialmente per non perdere la sua base navale sul Mar Nero) e da allora i segnali di rischio di grave deterioramento delle relazioni tra Russia e occidente erano evidentissimi.

Cosa hanno fatto, in questo frattempo, la Nato e l’Europa rispetto a queste preoccupanti evidenze?

La Nato ha proseguito nella sua strategia di accerchiamento della Russia. L’Europa ha tentato di proseguire su una via di cooperazione economica avviata da tempo (il proseguimento della visione di Willy Brandt in epoca sovietica) ma è stata bloccata proprio nel 2014 con la rivolta colorata di Piazza Maidan e il sovvertimento del governo ukraino di allora: in quegli anni l’allora vicepresidente USA, Biden, piazzò al vertice della compagnia di gas dell’Ukraina (che controllava il gasdotto centrale proveniente dalla Russia che arrivava in Europa), il proprio figlio, Richard Hunter Biden.

Quanto ai rapporti russo-tedeschi, nel board della Gazprom (Consorzio per il gasdotto North Stream) già sedeva, l’ex cancelliere socialdemocratico tedesco, Gerhard Schröder. Gasdotto che era ed è tutto un programma: transazione diretta di energia, senza passare per Ukraina e altri paesi centro europei che, all’occorrenza, possono chiudere il rubinetto o pretendere maggiori royalties per i diritti di passaggio, cosa che l’Ukraina ha fatto con continuità programmatica.

Il North Stream è in nuce la possibilità di una cooperazione diretta EU-Russia, cioè l’aborrito scenario di cooperazione euro-asiatica che il segretario di stato Usa Brezinsky, tra gli ultimi a tornare sulla materia, definì come la cosa più pericolosa che potesse accadere per gli interessi globali USA.

L’ingresso, sotto la presidenza Obama, del giovane Richard Biden ai vertici della compagni ukraina, con annessa parallela rivoluzione colorata che ha annoverato diversi sostenitori anche italiani in missione a Kiev davanti a platee in buona parte composte di neo-nazisti locali, era la risposta americana a questa possibilità da evitare ad ogni costo. Gli eventi politici ukraini sono in perfetta sintonia con questi passaggi.

La tenzone inter-imperialistica tra potenze prevalentemente militari e finanziarie (Usa, Uk) contro potenze prevalentemente produttrici di manufatti industriali (Cina, sud est asiatico ed Europa) arriva al dunque: ciò che i primi debbono evitare è che si consolidi un asse cooperativo dei secondi tra loro e con i produttori di fonti di energia e di commodities (prodotti agricoli, risorse naturali di base, minerali, ecc.) senza passare per il dazio imposto dai detentori dei servizi di transazione, fisici o virtuali, che su questi servizi operano un drenaggio fondamentale alla loro perpetuazione.

Gli interessi tra questi modelli di capitalismo sono così divaricati e divaricanti che anche fenomeni politici come la Brexit e il resuscitare di obsolete compagini, come il Commonwealth, sono in buona parte ad essi riconducibili: gli interessi inglesi sono sensibilmente opposti a quelli dell’Europa continentale. Canada e Australia, due economie profondamente estrattive, sono storicamente legati a quelli angloamericani; la Russia che da questo punto di vista somiglia loro, è geograficamente e storicamente un paese euro-continentale.

Gli anglosassoni, nel rischio di un consolidamento di un asse euro-asiatico, debbono privilegiare le loro relazioni con i paesi est-europei minori ex satelliti dell’Unione Sovietica, per impedirne la realizzazione. Lo strumento soft (e utilmente ambivalente) di questa politica è stata l’adesione alla EU, ma quello vero che dà effettive garanzie è l’adesione alla Nato.

La subalternità euro-continentale agli Usa e l’incapacità di costruire una pratica di reale coesione interna europea, di cui abbiamo visto gli esiti anche con la tragica crisi greca e con quella italiana del 2011-2013, hanno costituito le altre variabili della questione: il mercantilismo tedesco, l’opportunismo francese, da questo punto di vista hanno delle grandi responsabilità. Purtroppo, la logica imperialistica non si applica solo ai primi della classe, ma anche ai secondi, come ha mostrato anche la tragica vicenda libica, da cui, però tutti gli attori iniziali di quella vicenda sono usciti sostanzialmente sconfitti. In modo analogo è andata in Siria.

Ora, ascoltare i proclami occidentali e il richiamo agli accordi di Minsk dalle potenze di second’ordine contro l’aggressione russa all’Ukraina, in pieno accordo con anglosassoni e vertici Nato, è abbastanza impressionante: significa che al momento non vi è alcuna chance di autonomia europea e che la sudditanza al complesso militare-finanziario, o la loro compenetrazione, è fortissima. Gli spazi di manovra limitati. Oltre questi spazi, un intero orizzonte, pieno di incognite, dovrebbe essere ridisegnato.

La Russia, come qualcuno ha detto, si gioca una partita temeraria, ma evidentemente anche loro percepiscono che, alla fine, il potere e la pressione militare è ciò che conta, almeno nel limitato spazio geografico e storico di sua pertinenza. E che, dal loro punto di vista, non vi sono alternative praticabili all’ordine globale e geo-strategico imposto dalla superpotenza atlantica.

Ma sottostante al confronto Nato-Russia, c’è quello tra Usa e nucleo storico Eu (Francia, Germania, Italia, ecc.), e la prospettiva di una sua maggiore, relativa, autonomia; per certi versi esso è molto più significativo, come probabilmente mostreranno gli effetti delle sanzioni e/o gli eventi prossimi venturi.

Anche per tutto ciò, le poche (e non è casuale) manifestazioni per la pace che si annunciano dovrebbero contemplare nel loro programma almeno il richiamo al consolidamento di un’Europa, certamente contro la guerra, ma anche di cooperazione verso est e verso sud. L’autonomia europea può darsi sono in questo quadro. E ciò è possibile solo a condizione di provare ad emanciparsi dalla Nato, o – eresia – di scioglierla. Mentre un obiettivo minimo alla portata di qualsiasi suo componente, ivi compresa l’Italia, è quello di opporsi al suo ulteriore allargamento. Negare quest’ultima possibilità, al netto di principi rivoltabili come calzini, vuol dire cercare la guerra, non la pace.

(Rodolfo Ricci)

sabato 6 marzo 2021

Draghi, il Principe all’inizio degli anni ’20

  


 

di Rodolfo Ricci

Le élites, non sono necessariamente di destra o di sinistra. L’importante è che stiano sopra. Stando in alto possono mediamente osservare con imparzialità ideologica da che parte conviene pendere. La funzione delle élites è quella di riprodurre se stesse, cioè di riconfermare la dimensione sintetica dell’Alto e quella del Basso. E di proiettarla in avanti nel tempo con strumenti di diversa natura, nonché variabili rispetto ai mutevoli contesti; per questa proiezione sono preferibili strumenti egemonici, fondati su qualità riconosciute o riconoscibili, per esempio sull’autorevolezza, piuttosto che quelli quantitativi (forza, denaro, ecc.) o normativi o prescrittivi, che costituiscono sempre possibilità di ultima istanza.

L’ egemonia della scolastica capitalistica è stata fondamentalmente il denaro e il suo gioco infinito di accumulazione inteso come grazia che designa i suoi possessori e interpreti; non è detto che esso debba continuare ad essere il mezzo preferibile in un contesto oscillante e declinante di sistema. Alla fine, ciò che le élites debbono preservare è la dimensione di potere e di dominio, non lo strumento che ad esse serve per raggiungerlo.

Un concetto più interessante, da questo punto di vista, perché ancora più neutro e naturale, è quello della “competenza”, che rimanda all’antica qualità sciamanica di intercettare le forze superiori. Nella sua versione laica, legata alla scienza e alla sua manipolazione, si tratta di un concetto scalabile, a prima vista, non legato per forza alla finanza, né all’appartenenza a uno specifico settore sociale o confraternita, quindi non appare attaccabile, se non in seconda istanza, come “di parte”.

Per la quarta volta in 30 anni, in Italia, è questo concetto che viene recuperato e rinverdito alla pubblica opinione come quello decisivo: Ciampi, Dini, Monti, Draghi. Ma anche le due parentesi di centrosinistra, con Prodi hanno avuto a che fare con questa narrazione.

Oltre alle specifiche debolezze italiane che l’hanno prodotta, queste insorgenze ripetute di un medesimo esito, indicano forse un difetto generale delle democrazie parlamentari nella loro velocità di risposta alle mutevoli e sempre più rapide sollecitazioni di un sistema in crisi: le democrazie presidenziali sembrano avere maggiori chances. In esse è più facile e immediato sintonizzarsi sulla narrazione del “comandante in capo”, qualcosa che somiglia alla neutra figura del manager in ambito privato: colui che essenzialmente “gestisce”, prova a mettere perennemente in riequilibrio le diverse variabili; la sua invenzione costituì una delle innovazioni decisive della trasformazione dell’impresa in compagnia di investitori accomunati dall’esigenza di far fruttare al meglio i reciproci investimenti o almeno di salvaguardarne il valore nel mare tempestoso del mercato. Ma essa si è trasferita successivamente ad altre entità giuridiche: generalmente il manager è qualcuno che dirige un sistema organizzato in una situazione che non prevede cambiamenti sostanziali. E’ la figura che amministra al meglio l’esistente e non si pone altri problemi.

Tornando alla dimensione politica, questa figura si traduce essenzialmente in “principe”, nel senso che gli attribuì Machiavelli; dotato di qualsivoglia appellativo tecnico in grado di tenere insieme gli interessi contrapposti e mirando alla salvaguardia del sistema così com’esso è, almeno nei suoi caratteri basilari ed essenziali.

E’ chiaro che questa funzione, così intesa, non prevede alcun cambiamento di struttura, per intenderci, perché altrimenti si tratterebbe di pensare un altro sistema e per esso non ci vorrebbe un manager, ma un innovatore, un creatore, non un amministratore. Ci vorrebbe un nuovo principe.

Ma tutto il resto delle possibilità di azione di questa figura è possibile; e non è poco. E’ in questo abbondante “resto” che si situa, ad esempio, la questione della transizione ecologica e della sua guida.

Il “ministero della transizione” è il luogo istituzionale in cui dovrebbe avvenire questa sperimentazione semantica che prevede una moderazione di tutti gli input che arrivano dalle puntuazioni di interesse istituzionale, privato e sociale, con le nuove variabili imposte dalla catastrofe climatica ed ecologica per giungere ad una ri-, e co-progettazione del nuovo.

In questo frangente, la dinamica politica è sussunta a questo scenario, cioè non è più centrale; il dominus (che introietta allo stesso tempo l’obiettivo da raggiungere e il suo interprete) è predefinito e sta a monte. Però la politica resta essenziale come elemento di emersione e di validazione delle variabili da controllare e da gestire, le quali sono indispensabili per approdare alla ri-progettazione. Si tratta di una politica utilitaristica, che deve restare entro limiti definiti: deve cioè assumere una qualità “amministrativa”, non creativa.

La conformazione di governo di unità nazionale a cui si è approdati con la salutare giustificazione pandemica, è il modo per avvicinarsi ad un obiettivo che è destinato a permanere anche oltre la pandemia.

Il contesto pandemico, e quello climatico, entrambi evidenti e indiscutibili, consentono questa sperimentazione ad un livello diverso rispetto agli altri governi fondati sulla “competenza” che lo hanno preceduto: non si tratta solo di emergenza nazionale, in questo caso, ma di emergenza globale, duratura, con annesso passaggio epocale, non solo di fase.

Quindi si tratta, almeno nelle intenzioni, di una sperimentazione di lunga durata, al di là della contingente residua legislatura, e che pur subendo in futuro delle necessarie alternanze con lo schema classico di maggioranze e minoranze, tende ad avvicinarsi al suo definitivo superamento, man mano che la crisi sistemica procede verso stati sempre più parossistici in cui convergono, oltre alle questioni accennate, quelle determinate dall’innovazione tecnologica, la quale non procede con continuità algebrica, ma con una accelerazione che porta al superamento di ennesime soglie qualitative, analogamente al riscaldamento climatico.

In questa molteplice emergenza risulterà sempre più insignificante il conflitto politico tra maggioranze ed opposizione, perché come mostrano le modalità di contrasto del virus, esse si pongono su un piano di pura oggettività statistica e sono misurabili (nella propaganda che le accompagna) solo oggettivamente, non più soggettivamente. Il regno dell’inter-pretazione appare scalzato.

Lo scenario prevede quindi la fine della politica non perché uno degli attori ha prevalso su un altro (come nella variante di Fukuyama), ma perché la politica, nella prospettiva di riprogettazione non è più così indispensabile, o lo è molto meno di altri sistemi di emersione di interessi, quali il tracciamento parcellizzato dei soggetti, i sistemi di indagine e rilevamento di opinione e di fabbisogni, ecc.

Questi strumenti, nati nell’ambito dell’impresa per ottimizzare le strategie organizzative e di orientamento al mercato, di modificazione della domanda alle condizioni dell’offerta, ecc., possono così transitare ad un livello di programmazione e pianificazione sistemica, dopo la stagione che ha connotato la crisi della politica degli anni ‘90 che le ha utilizzate come strumento statistico per ridefinire la propria offerta e, nell’ultima fase (Cambridge Analitica), come strumento di manipolazione della domanda a fini ideologici (sovranismo, ecc.).

Riprendere in mano questa variegata cassetta degli attrezzi e finalizzarla ad nuova pianificazione è una necessità delle élites. Mantenere, accanto ad essi uno scenario formalmente apprezzabile di rappresentanza politica, varia, ma relativamente concorde verso obiettivi strategici epocali, è tuttavia, almeno in una fase transitoria, altrettanto necessario.

Via via che la parcellizzazione di interessi – monitorata scientificamente, resa visibile e posta in progressivo contrasto con la semplificazione settoriale e di classe – si afferma nel senso comune, si affievolisce in proporzione la necessità di questa mediazione, poiché parallelamente crescono e risultano più che sufficienti le presunte – o programmate – evidenze della necessità di pianificazione fondata oggettivamente sulla continuità e permanenza della crisi.

La forma partito, come elemento centrale del confronto democratico tende dunque a scomparire, poiché la sintesi che è in grado di operare risulta inferiore alle nuove disponibilità tecnologiche.

Tutto questo è in piena coerenza con il progetto elitario e il suo obiettivo di riequilibrio sistemico. Secondo questo progetto, il sistema va appunto riequilibrato, ma non cambiato. O meglio, va profondamente cambiato per farlo sopravvivere nella sua sostanzialità, come sistema. Va infine evitata ogni tentazione di approccio creativo al cambiamento in grado di minarne le fondamenta. Al centro del sistema vi è la separazione tra l’alto e il basso. All’alto spetta il compito di tenere stretto il banco. Poiché il banco statisticamente vince sempre e in certi momenti può anche permettersi di perdere; decisivo è che la perdita sia gestita, non subita.

Questa prospettiva implica anche una riduzione quantitativa della composizione del centro pianificante con l’espulsione di elementi di ridondanza e di disturbo della necessaria purezza sintetica e, insieme, con l’amplificazione dei suoi saperi tecnocratico-tecnologici. Ciò significa una concentrazione inedita dei poteri del centro pianificante, mentre la varietà confabulante della politica viene spostata su terreni periferici che le consentano di riprodurre la propria – utile – apparenza.

Questa prassi del centro elitario non contempla scelte fondate – o leggibili – con le ideologie che hanno caratterizzato la precedente fase e può alternare decisioni contraddittorie: l’assunzione della contraddizione già al proprio interno corrobora la narrativa della imparzialità competente, quindi ne rafforza la valenza di sintesi oggettiva.

Viste le contraddizioni e gli squilibri in atto, non è quindi detto che l’èlite utilizzi modalità operative in sintonia con la tradizione degli ultimi decenni e magari neanche di quella degli ultimi due secoli. Anzi, è più probabile che essa trasformi radicalmente i suoi approcci trasformandoli in qualcosa che può somigliare ad uno scenario di socialismo dall’alto, fondato e giustificato su base scientifico-tecnocratica e che tenti un’uscita dal “libero recinto” dell’accumulazione capitalistica.

Il governo Conte II aveva già iniziato a misurarsi con queste possibilità, a causa della pandemia: ma il suo deficit sul cammino era costituito dall’essere un governo formalmente e per certi versi, concretamente, di parte. Il governo Draghi supera questo deficit sulla linea indicata, rendendolo più accettabile alla parcellizzazione sociale definita dal quadro politico.

Questa linea di condotta implica che non vi sia un prevalente ideologico, ma piuttosto una prevalenza “narrativa” della competenza astratta.

Ma, per quanto sembri paradossale rispetto ai noti codici comunicativi e di propaganda, la funzione di competenza asintotale diventa, in realtà, la funzione prometeica, creatrice e libera da vincoli, cioè eminentemente politica. E può farlo solo distruggendo la dimensione politica che abbiamo conosciuto.

***

A questo punto si pongono, tra le altre, alcune questioni che bisognerà chiarire:

1) – la competenza è un elemento individuale o sociale ?

2) – la rappresentanza è una funzione matematica o è definibile da un complesso generico di algoritmi, oppure ha a che fare con qualche sostanza che ne conforma il senso? O, detto altrimenti, la rappresentanza porta con sé l’idea di una sua interna direzione di sviluppo oppure è solo il risultato di una sommatoria, di un calcolo?

3) – la politica termina veramente con l’inglobamento dei partiti in un nuovo paradigma tecnocratico ed elitario di governance?

Sulla prima questione può essere sufficiente ricordare la poesia di Brecht “Tebe dalle sette porta, chi la costruì?”. La risposta è evidente: la competenza è il risultato di innumerevoli competenze che si susseguono e si sommano nella storia. E’ un prodotto del lavoro, della riflessione e dell’osservazione. La competenza è sociale.

L’organizzazione della competenza è gestibile in molti modi ed è sempre pre-orientata da finalità diverse. Nessuna di esse, qualsiasi sia il contesto in cui la competenza agisce o è costretta ad agire, ha una priorità in sé, ma è definita storicamente da chi gestisce ed organizza la competenza secondo un paradigma che la precede.

Ed anche se la finalità fosse una soltanto, i modi per raggiungerla, come ci insegna la scienza possono essere diversi, talvolta conflittuali e anch’essi predeterminati. La competenza è dunque dinamica in sé, non è stabile, nè attribuibile ad alcun deus ex machina.

 

Della rappresentanza possiamo convenire che essa non è una funzione matematica, né un complesso algoritmico; la decomposizione del concetto di classe sociale o la segmentazione in infiniti strati della piramide (in cui si esercitano forze di pressione dai gradini più alti verso quelli più bassi con il risultato di una accentuata concorrenza tra i vari strati per tenere la testa fuori dall’acqua), non autorizza nessuno ad una ricomposizione sintetica che pretenda di assumere il carattere dell’oggettività, sia quando finalizzata al permanere della piramide come essa è, sia quando finalizzata a cambiamenti marginali nell’ordine – o nelle parziali prerogative – degli addendi.

Anche la rappresentanza è dinamica e, portando il ragionamento all’esasperazione del “pensiero debole” la rappresentanza è sempre auto-rappresentanza, a prescindere dai luoghi istituzionali o meno in cui essa si esprime.

Della fine della politica (partitica) come modello di organizzazione della rappresentanza, qualora essa opti definitivamente per un assorbimento nella sua funzione ancillare (non solo rispetto all’economia, cosa già abbondantemente acquisita), ma anche rispetto alla funzione epocale di ri-progettazione e pianificazione sistemica che si è aperta, potremmo semplicemente dire che questa ultima abdicazione mostra che, ciò che ci ostiniamo a chiamare “politica”, non è più tale, ma solo, per l’appunto, funzione corollaria che dovremmo nominare in un altro modo.

Ammesso che questo ruolo marginale fosse stato comprensibile, tatticamente, nella fase di sudditanza all’economia, non lo è altrettanto in quella di ri-progettazione perché mette in discussione l’essenza stessa e la natura della cosa politica. Questi epigoni della politica si chiamano dunque diversamente, si tratta di altre consistenze accessorie.

Resta da qualche parte, e dove resta, la politica, una volta scomparsa così di scena ?

Essa resta, inconsapevolmente, nello stesso luogo in cui restano anche la competenza e la rappresentanza. In un regno delle possibilità, cioè dovunque, in ogni luogo della piramide, se di piramide si tratta e delle narrazioni che da essa emanano.

Dunque la questione è ri-conoscere e ri-organizzare la competenza, la rappresentanza, la politica.

Siccome abbiamo ardito all’utilizzo di concetti del pensiero debole che molto successo ebbe all’inizio della destrutturazione di campo, è opportuno mantenere una coerenza di ragionamento interno:

non c’è alcun soggetto esterno in grado di ambire a questa ri-organizzazione nella fase epocale di cambiamento che si è aperta.

La logica sistemica implica ed impone che questa oggettività allo stato brado, questo coacervo nell’oceano delle possibilità, si ri-trovi da sola. E che, come una volta, diventi soggetto generale. A partire da quegli elementi organici che sussistono e che non sono ancora inglobati nel tentativo di ri-progettazione dall’alto.

Siccome dicevamo che il banco vince sempre, non si tratta neanche di far saltare il banco, ma di costruirne un’altro, capovolgendo molte categorie e cominciando con lo spostamento di lato della forma “piramide”.

Le èlites che stanno sopra, esistono infatti, solo se le si guarda dal basso. Se invece le si osservano dall’infinito spazio occupato dalle competenze diffuse e disponibili, esse occupano qualche puntuazione generica, instabile, probabilmente marginale.

C’è dunque bisogno, ancora una volta, di un atto di coscienza, di un’auto-rappresentazione.

Questa rappresentanza, tuttavia, non può essere più “partitica”, perché essa viene spazzata via dal disegno elitario.

Resta solo una dimensione che non può essere emarginata perché costituisce un elemento primordiale (che tiene insieme le stesse èlite): questa dimensione è “sociale”.

La solidarietà sociale tra le élites va scalfita.

L’altra va composta, forse va semplicemente resa visibile.

martedì 30 giugno 2020

Riemersione della vita. Verso una nuova città del sole

 


 

 di Rodolfo Ricci

Riemersione della vita

Cosa riemerge, cosa torna a galla, con una evidenza indiscutibile, da questi mesi di pandemia e di morte ?

Cosa torna a galla sul piano sociale, politico, economico, e cosa torna a galla nell’ambito della coscienza delle persone, cosa cambia nella psicologia sociale?

Si tratta di questioni fondamentali che potrebbero riconfigurare completamente l’immaginario collettivo e resettare il software che ha diretto il movimento della macchina sistemica degli ultimi 40 anni, il software T.I.N.A., per intenderci, e forse ben oltre.

Le evidenze che tornano a galla sono potenzialmente in grado di costituire elementi basilari della riprogettazione delle società, in particolare negli spazi centrali del sistema, i cosiddetti paesi avanzati. E da questo punto di vista, costituiscono molecole di nuove organicità non soltanto possibili, ma necessarie, indispensabili. Non è solo un auspicio, ma è anche una evidenza, appunto.

Ciò che segue è un provvisorio elenco di ciò che è riemerso e che è ampiamente visibile; bisogna solo fare un piccolo sforzo per registrarne la visione; per memorizzarla stabilmente e organizzarla, per diffonderla, per farla germogliare. Ma soprattutto bisogna evitare di lasciarsi irretire nella narrazione mediatica del potere di propaganda che mira a relegarle (le percezioni tornate a galla) nel regno dell’onirico, a inquinarle in modo che esse vengano autocancellate, a spostare l’attenzione nel campo del complotto, o a mobilitare la gente nel recupero di un’età dell’oro che non è mai esistita e non esisteva prima della pandemia, ma anche, forse, nella riproduzione di conflitti inquadrati nel precedente scenario: tutta la propaganda è orientata ad un ritorno indietro, a quando si era liberi da mascherine e guanti, liberi di viaggiare inquinando, liberi di consumare inutilmente e di produrre istericamente: se riescono a convincerci che la guerra da combattere è questa, è la reazione a vincere.

Economia / Lavoro / Capitale

Il vistoso rallentamento economico e la drastica riduzione del PIL è stato causato dalle misure di contenimento sociale; il contenimento sociale non ha riguardato i capitali (che continuano a muoversi liberamente, pur in un ampio disorientamento), ma ha riguardato le persone nella loro duplice funzione di produttori e di consumatori. Con i lavoratori e i consumatori a riposo, non c’è mercato o ce n’è uno molto ridotto che si incarta su stesso e che tende a ridursi con ulteriore frequenza negativa. Dunque l’economia esiste soltanto grazie alle persone, la cosiddetta “crescita” ne è una conseguenza possibile. Dunque le persone e la loro interazione costituiscono l’economia; dunque il sistema è un prodotto delle persone. Non c’è T.I.N.A. che tenga, né altri fattori astratti esogeni. Diciamo che c’è un vincolo permanente e interno: il lavoro vivo dei soggetti è il sole che illumina la terra.

Contrariamente alla teoria standard che vede il lavoro come uno dei diversi fattori di produzione insieme al capitale, possiamo intravvedere che vi è una oggettiva gerarchia di valore tra questi fattori: Il lavoro sta prima, il capitale dopo; il secondo è uno dei possibili prodotti del primo; il capitale è un mero strumento, una delle modalità di valorizzazione della capacità creativa del lavoro. E funziona solo in un ambito relativo, dentro specifici e limitati contesti, non in assoluto. Se il capitale è uno strumento, può essere gestito in diversi modi e da diversi soggetti. Non è affatto autosufficiente, esso è un oggetto, non un soggetto. Quando pretende di essere un soggetto, è un’invenzione: è il capitalismo. (Nella sua versione peggiore è il capitalismo estrattivo, anientatore di risorse, totalmente finanziarizzato, quello della globalizzazione).

Diversamente da quanto si produce con le guerre, nella pandemia il capitale fisso non è stato distrutto. Sta lì, in attesa. La crisi dipende dalla sterilizzazione del capitale fisso in mancanza di capacità di valorizzazione offerta dal lavoro e dalla riproduzione del lavoro. Dunque il capitale è uno strumento tecnico del lavoro, che il lavoro può sempre modificare o ricreare in diverse modalità. Mentre il lavoro non può essere ricreato dal capitale in assenza di lavoro e della sua riproduzione. Il capitale è un dunque un oggetto.

Il capitale finanziario continua ad muoversi e agitarsi istericamente nelle borse in una guerra che permane pur dentro lo svolgersi della pandemia, la permanente guerra tra i suoi detentori per assicurarsi il miglior livello di profitto nominale. Questa agitazione non produce alcunché: è solo una partita di giro interna. Una guerra tra rendite la cui valorizzazione si dà al prezzo dell’annientamento dell’avversario. Ma non aggiunge, né toglie niente alla loro somma. L’unica variazione che si produce è la sua progressiva perdita di valore complessivo a causa della manifesta impossibilità di poter alimentare il precedente ritmo di valorizzazione, o meglio di estrazione di valore dal lavoro. Più si protrae la pandemia, più appare inconsistente il valore della rendita in sé. Un curva che si protende verso il nulla. A meno che il lavoro non si riattivi in funzione subalterna ad essa, ed essa non riprenda ad estrarre valore dal lavoro.

Il capitale finanziario è solo uno strumento di misura. Se non c’è nulla da misurare, il capitale finanziario assomiglia ad una mappa di una terra inesistente. Un pura creatura fantastica. La sua permanenza in quanto dato reale è fondato solo sulla credenza generale che esso costituisca un dato reale esterno alla fisicità della capacità di creazione, cioè del lavoro.

E va ancora peggio sul piano prospettico: se il capitale (in particolare la frazione non speculativa di esso) gira su sé stesso senza intravvedere occasioni e prospettive condivise di investimento, cessa anche la sua funzione ancestrale, cioè quella legata alla sua progettualità sistemica. Se ne può fare a meno.

O meglio può essere sostituito. Da cosa ? Da una responsabilità condivisa. Da una progettualità condivisa.

E’ solo questa progettualità condivisa, collettiva, responsabile, che può ricreare il suo capitale, il capitale necessario ad attuar-si, a manifestare sé stessa non in quanto capitale, ma in quanto progettualità, cioè come orizzonte, come sol dell’avvenire.

————–

Rispetto a questa evidenza (che viene volgarizzata nel codice binario di pubblico/privato) già si intravvedono due visioni, due percorsi di uscita dalla crisi; o meglio di uscita dall’evidenza medesima che, per le due fazioni che detengono la formula magica, deve essere annebbiata, nascosta, rimessa a forza nella lampada di Aladino:

1) – tornare a prima come se niente fosse successo.

2) – usare l’occasione per riprogrammare il sistema, quindi per cambiare il progetto di società.

Se la prima ipotesi è palesemente reazionaria, infondata tecnicamente e inaccettabile socialmente ed ecologicamente (ma non per questo impossibile, anzi…), nella seconda si confrontano prospettive riformistiche o palingenetiche.

Quelle riformistiche intravvedono l’opportunità di limitazione della logica mercantilistica, del rilancio della funzione statuale in funzione di un riequilibrio tra pubblico e privato e di modificazione generale degli obiettivi della produzione e dei processi produttivi (L’idea del New Green Deal è una delle direzioni proposte).

La prima opzione, quella del tornare al prima come se niente fosse successo, porta inevitabilmente e velocemente allo scontro imperialistico e alla guerra.

Guerra tra i grandi aggregati sistemici di potere economico e a cascata tra le sue concentrazioni territoriali, gli Stati.

La seconda opzione tenta una riconfigurazione del capitalismo tentando di espungerne o di limitare, necessariamente, la variabile neoliberista e ipotizzando una ricomposizione ed un equilibrio degli interessi interni al sistema, sperando che si produca una modificazione nella sua ideologia che si è stratificata nell’ultimo secolo con l’accentuazione irrefrenabile dell’ultimo cinquantennio.

La prima opzione appare al momento in svantaggio strategico e pare invece di crescente consenso la seconda. Ma non è detto che prevalga, poiché gli assetti proprietari sistemici e tecnologici (capitali, tecnologie, informazione e comunicazione) sono ancora in mano a chi deteneva il potere prima della pandemia e l’infrastruttura ideologica, tecnologica e di potere sono intimamente compenetrate ed equilibrate su quel modello.

Se c’è infatti un paradosso degli effetti della pandemia, il più evidente è che in una situazione in cui la vita stessa viene messa in questione, ciò che invece non viene toccato, o solo marginalmente, è l’istituto della proprietà privata (sia dei mezzi di produzione che dei capitali), anche se la sua fascinazione sociale decresce sensibilmente.

Almeno per il momento, perché tutto varia rapidamente (non solo sul piano sistemico quanto su quello dell’egemonia culturale, cioè dell’ideologia che lo sorregge) al variare dell’intensità della pandemia, della sua concentrazione in alcune aree piuttosto che in altre, della durezza dei suoi effetti su alcune fasce sociali o sulla maggioranza delle società. In generale, si può dire però, che la permanenza e la durata globale della pandemia influenzerà in modo decisivo la definizione dell’opzione su cui convergere poiché determinerà cambiamenti decisivi sul vissuto concreto e sul senso interiore dei soggetti individuali e quindi sulle successive ri-composizioni sociali.

Se la seconda prospettiva indicata appare a tutti gli effetti più accettabile e realistica, bisogna comprendere se, così come definita, sia in grado di “reggere” alle contraddizioni interne con cui sarà costretta a confrontarsi:

– la questione centrale è la ridiscesa in campo in forza dello Stato come attore anelato e chiamato a tappare le enormi buche create dalla libera mano del mercato e quindi gli effetti sistemici che ciò comporterà: la marginalizzazione di questo antico soggetto a mero regolatore e garante delle dinamiche del libero e superiore mercato (negli ultimi 4-5 decenni) aveva avuto la sua insita ragione nella semplice e irrefrenabile necessità del mercato di superare ogni confine e di acquisire progressivamente tutti gli ambiti dei beni pubblici e naturali (inclusi quelli umani) per rilanciare una nuova fase di accumulazione.

I due processi paralleli e unificanti della fase che ci stiamo lasciando alle spalle sono stati essenzialmente:

a) – l’inclusione della totalità dello spazio (fisico, culturale e di forze lavoro) del pianeta alla sua logica di valorizzazione cancellando ogni traccia potenziale alternativa e,

b) – la progressiva distruzione di una autonoma funzione statuale – con una relativa apertura e disponibilità a ciò che era ancora riconducibile alla categoria del “pubblico” in quanto mero regolatore -, alla funzione di valorizzazione capitalistica.

La cosiddetta globalizzazione è la somma di queste due strategie, il cui obiettivo è stato quello di assicurare margini di profitto crescenti e ritenuti adeguati (al di fuori di ogni scala oggettiva che di per sé non esiste, se non nella misura del contenimento della svalutazione del saggio di profitto) e indispensabili alla riproduzione sistemica.

Senza questi due nuovi spazi di azione (accompagnati dalla progressiva capacità del mercato di creare nuova domanda fittizia con appropriate strategie di costruzione identitaria dei singoli soggetti e quindi di determinazione della domanda da parte dell’offerta e – parallelamente – della conseguente compressione crescente dei diritti del lavoro grazie anche al ricatto costituito dalla competizione mercantile della forza lavoro), la valorizzazione capitalistica in termini di “adeguato e soddisfacente” tasso di profitto medio, non sarebbe stata raggiunta.

Ora, la ricomparsa di un limite naturale (causato dal virus) e dai suoi evidenti effetti di conferma della decomposizione dell’equilibrio neoliberistico, la riemergenza dello Stato – che è chiamato a riacquisire o a sostenere attivamente comparti strategici dal punto di vista sociale (sanità, cibo, industrie legate di volta in volta alla vocazione specifica dei territori, per esempio il turismo in Italia, e, quindi, come conseguenza, la ri-nazionalizzazione di alcuni settori centrali), determineranno per forza di cose una drastica riduzione del margine di profitto medio riservato al “libero mercato”, cioè al privato.

Lo spazio per le “libere forze del mercato” si contrae quindi, perché torna in scena un agente che deve garantire spazi di mercato “non libero”, ma piuttosto funzionale ad un nuovo equilibrio, ad una nuova stabilità. Essenzialmente per evitare il crollo sistemico.

La domanda è: quali effetti può produrre una situazione di questo tipo ?

E le grandi concentrazioni capitalistiche accetteranno questa nuova situazione? In che misura ?

Se immaginiamo che esso possa essere possibile, dovremmo dedurne che le elites globali siano disponibili ad innescare al proprio interno una dialettica che riesca a far pesare la bilancia verso questa soluzione. Una sorta di provvisoria ritirata strategica (o tattica ?) che consenta di salvare il core sistemico in attesa di un suo rilancio.

Il che significherebbe che una parte maggioritaria della composizione interna delle elites globali si predisponga ad accondiscendere ad una limitazione della propria potenza e ad un accordo (tattico o strategico ?) con lo Stato.

In cambio di cosa può avvenire una autolimitazione di questa potenza ? Probabilmente, nella fase che si apre, in cambio di un aumento della disponibilità di potere politico che va a ricollocarsi, dal mercato allo Stato.

Questo scambio dovrebbe avere una sua solidità, poiché il suo obiettivo è quello di mettere all’angolo la componente più regressiva, quella del “torniamo al prima come se niente fosse successo” – che è pregna di rischi – magari in attesa di un miracolo tecnologico-farmaceutico (non solo il vaccino, ma anche, per esempio, una scoperta che consenta di ridurre drasticamente le emissioni) oppure di un evento ingegneristico che ci conduca verso una dimensione post-umana – in senso genetico e culturale -, per cui cioè la specie diventi tendenzialmente impermeabile alle modificazioni indotte da sé stessa (e dalla natura), che consenta successivamente di recuperare la classica linea di sviluppo asintotale. Per quanto folle all’apparenza, vi sono certamente teorie di tink-tank globali alle prese con queste ipotesi.

Tutte queste possibilità possono essere sostenute da una accentuazione ideologica del fattore di “direzione”, di “competenza tecnocratica”, indispensabile per la ri-programmazione di una complessità di un grado maggiore della precedente, la quale contemplava solo in sub-ordine la funzione statuale diretta.

Adesso, la necessità di tenere sotto controllo la crescente complessità sistemica rende accettabile la devoluzione dei saperi di programmazione – che negli anni del neoliberismo è stata di esclusivo appannaggio dell’impresa – a poteri interni allo Stato. Complessità che, in questa ottica, lievita ulteriormente poiché tra le variabili da tenere sotto controllo ci saranno anche i processi di ri-programmazione parallela e competitiva tra gli Stati.

In questo caso, la questione da capire è: a), se tali saperi sono adeguati alla fase che si apre o b), non piuttosto adeguati alla semplice trasposizione di obiettivi di competizione tra sistemi a variabile tasso di integrazione Stato/Mercato.

Vi è cioè il rischio consistente di una riconfigurazione degli obiettivi statuali da obiettivi sociali ad obiettivi di ulteriore accentuata competizione tra sistemi.

E poi vi è un’altra considerazione da fare: in che misura le elites globali sono pronte a riconfigurarsi, anche parzialmente, come elites nazionali? E’ abbastanza probabile infatti che il gioco di scambio tra tassi di profitto medio ridotti e partecipazione a tassi di potere statuale aumentati, venga giocato dalle grandi concentrazioni multinazionali in modo del tutto analogo a quanto avvenuto precedentemente: cioè che la riduzione della capacità di direzione della libera mano del mercato con cui si sono esercitate le elites globaliste nella fase neoliberistica attraverso il ricatto del debito, per dirne una, possa esercitarsi, in questa fase, nella dislocazione delle loro tecnocrazie multinazionali, pro-quota in ogni situazione nazionale…rideterminando una nuova subalternità – oggettiva – delle singole capacità di direzione statuale, una volta condivisa tra di esse la strategia di fase da perseguire.

Si tratterebbe in questo caso, da parte della ridislocate elites, di una condivisione mirata di obiettivi di fase da perseguire. Una sorta di riproduzione – sui generis – dei poteri nobiliari di sangue blu con intrecci matrimoniali più o meno chiari e quindi della ridefinizione di una geopolitica il cui punto di equilibrio non è l’interlocuzione e il confronto (o magari la cooperazione) tra Stati, ma piuttosto la camera di compensazione tra gli interessi delle molteplici diramazioni nazionali delle confraternite delle elites già globaliste, ed ora, solo apparentemente e in vario grado, ri-nazionalizzate.

Questo nuovo equilibrio non ci affranca da rischi, come si può ben intendere, ma ci conduce in un territorio comunque tendente a politiche imperialistiche e a un ulteriore livello di competizione internazionale intrecciata di cui sarà molto difficile cogliere il bandolo.

Tutto cambia affinché nulla cambi, si potrebbe dire. O anche, il che è lo stesso, che la globalizzazione era stata costruita con la medesima logica, ma con una prevalente visibilità dell’elemento ideologico-propagandistico costituito dalla “libera mano dei mercati”; mentre quella che avanza sarebbe, diciamo così, più realistica e meno, ideologica…

Naturalmente questo scenario può essere co-determinato o influenzato democraticamente, possono esservi degli spazi di azione; ma bisogna capire se gli spazi di co-determinazione (dell’ipotesi n.2) godano di pari dignità e siano aperti o vengano prioritariamente limitati e sussunti a scenari che non mettano in discussione una congiunturale architettura che avrebbe come obiettivo centrale garantire una riproduzione – sotto nuove forme e nuovi standard di valorizzazione capitalistica a tassi di crescita molto più bassi della precedente – e in cui, quindi, lo Stato, ogni Stato, diventa garante pro-quota di questo generale ridimensionamento, restando con ciò invischiato nella dinamica di competizione globale intrecciata pubblico/privata.

E’ ovvio che in questo caso ne farebbero le spese le rispettive fasce di piccoli produttori e le masse lavoratrici ai quali entrambi si spiegherà per primo che la situazione esige una rideterminazione in termini di contenimento dei livelli di benessere /reddito, ecc. per assicurare il nuovo equilibrio competitivo tra sistemi paese ora a prevalente presenza statuale (cioè, con ammiccamento collettivo).

La conclusione del ragionamento sarebbe infatti il seguente: il sistema deve posizionarsi su un livello di consumo interno di risorse ridotto, mantenendo tuttavia integra la legittimità del meccanismo di valorizzazione. D’altra parte, il punto centrale della vicenda consisterà nel sostenere la tesi che il sistema precedente non è crollato in sé, ma solo per un fattore naturale esterno ad esso e che la fase di transizione è necessaria a riconquistare la belle epoque.

Una volta risolto il problema esterno potrebbe ricominciare a funzionare tutto come prima. Sarebbe dunque questo il patto da sottoscrivere, cosa già avvenuta diverse volte, pur in diversi contesti storici.

Le due diverse posizioni si confronteranno dunque sulla questione dei tempi e della velocità del riassetto, non sugli obiettivi finali del riassetto che, alla fine, risulterebbero essere i medesimi.

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Ma riprendiamo per un momento la riemersione di antiche e nuove evidenze:

La crisi da Covid-19 ha mostrato alcune cose apparentemente marginali, ma invece di grande rilievo; per esempio, ha mostrato che la omogeneizzazione sistemica del pianeta sotto il regime della produzione infinita, costituisce un vulnus oggettivo che favoriscel’irrompere di fattori (apparentemente) esterni.

La concentrazione di popolazione in grandi conurbazioni metropolitane funzionano un po’ come la riduzione della varietà in agricoltura. Un agente patogeno che, in una situazione di popolazione diffusa e meno concentrata non sortirebbe gravi conseguenze, si trova, suo malgrado, a sviluppare effetti disastrosi. Così come le polluzioni che sono un’altra conseguenza della concentrazione e probabilmente vettori dei patogeni.

La concentrazione di popolazione è un effetto della concentrazione produttiva e del libero movimento di capitali che le alimenta creando ammassi concentrati di ricchezza e parallele diffuse lande di marginalizzazione e impoverimento in altre aree. I grandi movimenti migratori sono solo il prodotto di questi squilibri.

La strutturazione delle rete di metropoli capitalistiche connesse in tempo reale che comandano il pianeta ha costituito il fattore determinante per l’espandersi rapidissimo della pandemia.

La divisione gerarchica tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, ha mostrato delle oggettive insostenibilità nel momento di crisi pandemica. Lavoro manuale marginalizzato in settori tuttavia strategici come la salute o la produzione alimentare si è manifestato invece come una delle colonne che sorreggono l’impalcatura, qualsiasi impalcatura.

La divisione gerarchica tra diversi settori produttivi e di servizi ad alta o bassa intensità di tecnologica e di manodopera, con le rispettive quote di reddito medio, ha mostrato in modo altrettanto evidente la sua limitata e relativa valenza. Questa gerarchia non ha alcun senso in un momento topico come quello della pandemia. Non ha dunque mai una valenza assoluta in sé, o rispetto ai sistemi, ma sempre relativa a contesti definiti dalla capacità di dominio di un ambito su un altro: si tratta in un certo senso di tautologie determinate dal dominio.

Questa divisione è anche un effetto della dinamica tra settori considerati maturi o non ancora maturi. Una “maturità” peraltro molto discutibile, dal momento che la privatizzazione di settori considerati maturi aveva costituito uno dei passaggi decisivi della globalizzazione…

Maturi dunque per chi ? Per una certa valorizzazione capitalistica che non aveva molto da raccogliere dalla produzione di mascherine o di alimenti di qualità rispetto alla produzione di tecnologie avanzate o del junk food; ma non per quelli riguardanti la produzione di farmaci per patologie di massa sulle quali era ed è possibile costruire business duraturi a tassi soddisfacenti. Ma anche questo assunto sta crollando anche se resisterà nei mesi a venire.

La definizione di settori strategici o meno, di ciò che è possibile privatizzare o meno, di ciò che è considerato lavoro con status privilegiato o meno, sono tutti concetti relativi a situazioni standard stazionarie in cui non si manifestano irruzioni di fattori “esterni”. (Qui stiamo sempre parlando prevalentemente dii paesi con economie “avanzate”, cioè le nostre, mentre in quelle “subalterne”, queste cose costituiscono evidenze inascoltate da tempo, ma hanno prodotto dinamiche sociali fortissime anche nei decenni della globalizzazione: autosussistenza, sovranità alimentare, rifiuto di entrare nel circuito del commercio internazionale sono stati gli asset delle rivolte contadine e del riemergere dell’indigenismo).

Tutta la scala e i gradi di valore diversi che si attribuivano ad attività e professioni, è saltata. Si è reso evidente che essa non era assoluta, ma concerneva solo una situazione specifica e stabile ritenuta “ottimale”.

Questa questione, corroborata dalla discussione riaperta tra ciò che è essenziale e ciò che non è essenziale, riapre uno spazio critico enorme e decisivo.

Emerge anche che la fine della storia umana – definita dallo spartiacque del crollo del muro – si era tradotta, a nostra insaputa, in fine della storia naturale, per cui persino la possibilità della manifestazione di un fattore esogeno alla società umana era stata cassata dalle tranquillizzanti prospettive del neoliberismo.

Salvo, negli ultimi anni, il riemergere sempre più pressante della questione ambientale, che però il New Green Deal, avrebbe tranquillamente risolto grazie a veicoli elettrici e risparmio energetico, ecc. senza porsi il problema, non solo dello stoccaggio delle batterie elettriche, ma neanche delle lean production globali che per assemblare un prodotto debbono lasciar transitare sugli oceani migliaia di porta-continer e petroliere super inquinanti soltanto per minimizzare i costi del prodotto finale, grazie ad una divisione internazionale del lavoro in cui continuano ad essere centrali i costi relativi della manodopera. E ovviamente continuando a scaricare sul pianeta i costi – sociali e globali – connessi a questi processi di produzione.

In agricoltura, la distruzione della varietà delle coltivazioni in tutti i paesi, ma in particolare nei continenti africano e latino-americano e in Asia, portate avanti dalle grandi corporation delle sementi transgeniche e degli annessi veleni diserbanti per assicurare la super produzione di poche colture da diffondere ovunque, o in zootecnia l’allargamento degli spazi di allevamento tramite disboscamento, il consumo di acqua che è legato a queste pratiche, e l’accaparramento di terre e acqua potabile, ecc. hanno costituito uno degli ambiti portanti dell’ ”equilibrio” neoliberista tra le multinazionali interconnesse della chimica, dell’agroalimentare, della cellulosa e del legname, con gli altri settori produttivi ad alta tecnologia, affermatesi negli ultimi decenni.

Mentre lo scioglimento dei ghiacciai e del permafrost con le conseguenze di produzione di ulteriore quote di gas serra, distruzione delle riserve idriche, con il rischio del riemergere di antichi agenti patogeni, ecc., costituiscono altrettanti ambiti di esercizio per la definizione di nuove rotte commerciali, di investimenti colossali nella gestione di un bene sempre più raro (l’acqua), e di mirabolanti potenziali investimenti nella chimica e della farmaceutica.

Tutto questo avveniva a bocce ferme, cioè in quello scenario di fine della storia – anche di quella naturale -, che le smisurate capacità del capitalismo potevano comunque tenere “sotto controllo”.

Il capitalismo che alle sue origini produceva soluzioni ad alcuni problemi delle società umane, si era riconvertito nel più straordinario sistema di business e di arricchimento sulle catastrofi che esso stesso produceva. E più produceva soluzioni ai suoi danni, più aggravava le catastrofi che produceva.

Siccome il luogo dove si fa business e dove si producono catastrofi è lo stesso, è abbastanza ovvio il termine della sua corsa almeno in quanto “elemento propulsivo”. Trasformare la terra e l’umanità in una pattumiera infettata non costituisce un gran risultato.

I suoi concetti portanti, come la concorrenza, la competizione, l’ottimizzazione finalizzati al profitto e al successivo investimento e al successivo profitto, appaiono adesso obsoleti.

Più di concorrenza e competizione appaiono socialmente più produttive la collaborazione e la cooperazione. L’ottimizzazione rispetto al sociale è più produttiva dell’ottimizzazione meramente economica legata al profitto.

Per dirla in un altro modo, il valore d’uso è manifestamente superiore al valore di scambio.

La responsabilità, quella risorsa scarsa tra gli uomini, appare oggi come una necessità, quindi una esigenza oggettiva, non più soggettiva.

Per quale motivo si sono sacrificati centinaia di medici e infermieri ? Per un salario migliore ? No, lo hanno fatto per responsabilità oggettiva, collettiva. Non c’era altro da giocare. Il capitale era abbondantemente vacante. Latitante. Inesistente. Era manifestamente una invenzione, un trucco.

E’ anche emerso che la cooperazione tra saperi è la sola che può consentire di individuare i farmaci necessari o il miraggio del vaccino. Il copyright appare destituito di senso. Anzi è un enorme ostacolo. Al suo posto possiamo e dobbiamo fornire medaglie al valore.

Cioè un infinito riconoscimento alle migliori qualità umana, quelle per cui da sempre le società si tengono in piedi, al di là del meccanismo di riproduzione della forza lavoro: responsabilità, condivisione, solidarietà, dono.

Quando queste qualità sono espresse da singoli, vengono ricondotte ad un ambito di coscienza individuale, ma in realtà sono qualità comuni e collettive, pur in ambiti determinati, perché si danno sempre nell’interazione tra soggetti, cioè sono pratiche e prodotti sociali.

La consapevolezza che queste qualità sono indispensabili per tenere in piedi l’edificio e che nulla hanno a che spartire con la logica del profitto inaugura potenzialmente un altro pensiero, una nuova città del sole.

mercoledì 10 giugno 2020

Covid-19: Nel riprogettare il Paese questa volta non si dimentichi l’emigrazione italiana

 


 

 

di Rodolfo Ricci *

Nelle diverse occasioni di uscita dalle crisi che hanno sconvolto l’Italia fin dalla sua unità, l’emigrazione è stata una delle variabili centrali: nel senso – molto negativo – di usarla come un decongestionante, come una sorta di antinfiammatorio, agevolandola e addirittura di incentivandola in modo mirato. E’ avvenuto alla fine dell’800 e all’inizio del ‘900 e, ancora in modo esplicito, nel secondo dopoguerra, quando si invitarono le masse inoccupate e contadine a “imparare una lingua e andare all’estero”.

Forse in pochi lo ricordano, ma anche a ridosso del nostro presente, la cosa si è di nuovo ripetuta, solo 8 anni fa, con il messaggio lanciato ai giovani italiani da Mario Monti, in sede di investitura a Presidente del Consiglio, “a prepararsi ad una nuova mobilità nazionale ed internazionale”. Cosa che anche questa volta è puntualmente avvenuta, portando all’estero, nell’arco di un decennio quasi 2 milioni di persone e un altro milione dal sud al nord.

Sugli effetti di questo ultimo esodo si è parlato poco e talvolta a sproposito, individuandone la novità nella brillantezza dei “cervelli in fuga” e coniando perfino nuovi termini sostitutivi dell’antiquata “emigrazione”, con la libera mobilità degli “expat”.

Ma sempre di emigrazione si è trattato, a rinverdire quella antica caratteristica del sistema Italia a non sapere valorizzare al suo interno la risorsa fondamentale: il lavoro e l’intelligenza delle persone in generale e quella delle nuove esuberanti generazioni in particolare.

Carlo Levi in un famoso discorso al Senato di 50 anni fa, diceva che si trattava di una questione strutturale, legata all’arretratezza del nostro capitalismo e delle sue classi dirigenti istituzionali e politiche le quali, piuttosto che modificare in senso progressivo la struttura di classe del paese per un sviluppo più giusto e equilibrato, preferiva far evacuare fuori dal meridione e all’estero ciò che considerava sovrabbondanza di popolazione, senza neanche darsi la briga di calcolare la perdita di patrimonio umano di questa scelta che, solo nell’ultimo decennio, è ammontata a svariate decine di miliardi di Euro all’anno ed ha comportato una flessione del Pil, l’accelerazione del decremento demografico e i paralleli ed ovvi vantaggi strutturali per le aree e i paesi di arrivo dei nostri nuovi emigrati, con i quali noi dovremmo “competere”.

Ora, con l’ennesima crisi targata Covid-19, da più parti, con diversa accentuazione e sensibilità e anche con vari equilibrismi e una certa confusione, si prova a ripensare tutto. Forse si tratta dell’ultima chance o, comunque, i termini di uscita da questa ennesima crisi definiranno il profilo da ora fino al 2050.

E’ da auspicare con forza che questa volta venga messa da parte definitivamente l’obsoleta soluzione di lasciare partire la gente, sia perché, come abbiamo visto, le decine di migliaia di medici e infermieri che abbiamo in silenzio lasciato emigrare verso l’Inghilterra o la Germania negli ultimi 15 anni sarebbe bene che restino o tornino da noi, sia perché, per il nuovo sviluppo orientato ad un new green deal ecologicamente sostenibile, abbiamo bisogno dei ricercatori (che abbiamo formato a nostre spese in tanti settori), sia perché le start-up e tutto il ventaglio di nuova imprenditoria è bene che nasca e si sviluppi e crei lavoro sul suolo natio, sia infine, perché è fuori da ogni ragionevole luogo che laureati e diplomati nostrani vadano a sperimentare il precariato oltre confine contribuendo, tra l’altro, al dumping sociale sul costo del lavoro su cui è costruita la ossessiva dinamica competitiva tra sistemi produttivi, in Europa come altrove.

Per quanto riguarda l’Europa di Schengen, vale la pena ricordare, a scanso di equivoci, che “la libera circolazione” è libera se non è forzata ed unidirezionale, altrimenti è una frottola bella e buona.

L’invito è dunque quello di valutare la questione emigratoria all’interno di ogni passo per il “rilancio” che si farà con il decisivo intervento (era ora e speriamo) di programmazione dello Stato nelle sue varie articolazioni.

La crisi da coronavirus ha costretto a tornare in Italia o nelle regioni di origine decine di migliaia di giovani che hanno perso il lavoro che avevano nelle regioni del nord o all’estero. Sarebbe il caso di conoscere il numero complessivo (alcune stime parlano di oltre 100 mila persone rientrate nei tre mesi di lock down), visto che soltanto in Calabria sembra che ne siano tornati almeno in 20mila. E’ utile ricordare, tanto per fornire un elemento di confronto, che al 1° gennaio 2019, secondo l’Istat, la popolazione residente in Calabria è di 1,95 milioni, mentre i calabresi all’estero sono 413 mila. In Sicilia, su 5 milioni di residenti, abbiamo 768 mila siciliani all’estero.

Dal 2008 al 2017, sempre secondo Istat/Aire, si sono trasferiti nel centro-nord quasi un milione di persone, con un saldo negativo di – 430 mila persone. Invece verso l’estero sono partite 750 mila persone, con un saldo netto negativo di circa – 417 mila persone. Secondo diversi istituti di ricerca e associazioni dell’emigrazione che hanno fatto una media ponderata tra i dati Istat e i dati di accesso registrati dai maggiori paesi di emigrazione, la parte che va all’estero è invece tra il doppio e le tre volte il dato italiano. In questo caso il saldo negativo verso l’estero, negli anni indicati, sarebbe tra 1 e 1,25 milioni.

Sarebbe dunque molto opportuno che né i pochi rientrati, né altri, siano costretti a ripartire, ma che abbiano la possibilità di trovare occasioni di lavoro immediato e dignitoso nei luoghi di origine.

Le Consulte Regionali dell’Emigrazione dovrebbero attivarsi immediatamente per porre la questione e svolgere la loro funzione istituzionale prevista dalle diverse legislazioni regionali.

Ed è da auspicare che gli stessi emigrati che stanno tornando si organizzino per rappresentare in autonomia i loro bisogni e i loro diritti all’interno dei movimenti che, un po’ dovunque, chiedono un cambio di passo delle politiche sociali e di sviluppo locale.

Poi c’è il versante di coloro che all’estero sono rimasti: dei 60 milioni di italiani, secondo i dati delle anagrafi consolari 6 milioni sono stanzialmente all’estero. Solo 15 anni fa erano 3 milioni. Ma poi vi sono anche quelli non registrati nelle cancellazioni di residenza che, come accennato, sono un altro milione e più.

Stiamo parlando dunque di oltre il 10% della nostra popolazione, in possesso di cittadinanza. Si tratta di una regione fuori confine, seconda solo alla Lombardia per dimensioni, ma con vincoli forti e stabili con l’Italia, semplicemente perché sono italiani.

Cosa si fa, come si coinvolge questa presenza diffusa ai quattro angoli del pianeta nella riprogettazione del paese? Non si tratta forse di una occasione straordinaria per la costruzione di moderne ed efficaci relazioni, di mutuo e reciproco riconoscimento di diritti e di potenzialità che possono essere messe in campo?

In campo dove? si dirà…: intanto al sud, intanto nelle ubique aree interne di tutto lo stivale, in via di avanzato spopolamento, intanto nella promozione di un modello di turismo sostenibile, del made in Italy in generale, nel sostegno all’export delle piccole e medie imprese, delle produzioni locali e tipiche, insomma, in ogni ambito di relazioni internazionali in cui il sistema Paese, le sue regioni, le sue aree svantaggiate, dovranno necessariamente esercitarsi.

E come si fa? con quali soldi? visto che dobbiamo prepararci di nuovo ad essere parsimoniosi e attenti. Su questo vorrei essere più netto: coinvolgere seriamente l’emigrazione italiana in queste politiche e misure attive, costa una frazione di quanto costa ampliare le prerogative di tanti carrozzoni onnicomprensivi o di altri da mettere in piedi per alimentare, magari, spartizioni e clientele. Qui le istituzioni e burocrazie centrali e regionali dovrebbero fare attenzione: hanno a disposizione un patrimonio multiculturale di giovani generazioni italiane che è pronto a diventare un attore del rilancio del paese. Ed hanno anche un’occasione: quella di mettersi alla prova su efficienza e ottimizzazione di una quota di spesa pubblica evitando di spendere in modo ridondante e inopportuno, oppure in modo insufficiente, visto che da decenni non riusciamo a spendere la quota che ci spetta di Fondi comunitari…

E con chi si ragiona su tutto ciò? Questi 6 o 7 milioni di italiani all’estero hanno le loro rappresentanze, dimenticate o ignorate da tempo, ma ce le hanno: quelle nazionali e quelle regionali. E poi hanno le loro organizzazioni, nazionali e regionali, che in tempi più sensati degli attuali sono state quantomeno audite. Ecco, almeno riprendetevi il tempo di ascoltarle. Potreste scoprire, o riscoprire, cose dimenticate o completamente ignorate. Nella permanente miopia, per usare un eufemismo, che ha caratterizzato oltre un secolo di mediocre storia nazionale.

 

*) Segr. FIEI (Federazione Italiana Emigrazione Immigrazione), Vice Seg. del CGIE

 

FONTE: https://emigrazione-notizie.org/?p=32035